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CLASSICS REWIEW 9

IN THE COLONNADES 'Scrap Metal Value' (Accelerating Blue Fish, 1991)

Adesso che sono tornate di moda definizioni come, doom, heavy rock pesante, metal psichedelico, riassunte in qualche modo nel termine stoner, forse qualcuno si ricorderà anche di questi In The Colonnades, invece che continuare ad omaggiare Electric Wizard e Saint Vitus. In fin dei conti a pensarci bene sono passati sei anni da quando un'etichetta italiana, la Godhead, aveva anticipato tutti mettendo sotto contratto i seminali Acrimony (Intervistati dal sottoscritto per Metal Shock, in epoca preistorica -nda) e consegnando alla leggenda la collaborazione Lee Dorian/Paul Chain, anche se è bene precisare che il messia universale di questo filone è proprio il nostro Paul Chain, stimato e idolatrato in tutto il mondo. Dicevamo di questi ITC, formatisi a Stoccolma nel 1984, dopo che il tastierista Olle Borg ed il chitarrista Magnus Gehlin nel 1979 avevano inciso un singolo di pop elettronico con il nome di  Plast. Il debutto arriva con un miniLP del 1986 che porta il nome del gruppo, lo stesso titolo che ha l'album di tre anni più tardi. Questo 'SMV' è del 1991 ed è un solidissimo album di heavy rock sabbathiano con riff killer e qualche concessione sepolcrale, anche se in generale l'atmosfera è sulla linea dei Danzig, ovvero heavy rock oscuro, ma non doom-oriented, con un certo lirismo alla Veni Domine. La copertina, seppur ombrata, mostra una donna nuda sdraiata con la vagina in primo piano, con uno sfondo da 'post concerto' tra free festival e raduno di bikers. 'Friday', Sexgun', 'Pig After Pig', 'Birth Of A Nation' e 'The Enemy Within (ITC)' hanno il sapore terroso di canzoni, viziose, senza regole commerciali, dove il suono è tutto, anche se la voce del bassista Johan Petterson ha una buona modulazione e rende meno colloidali le melodie. Registrato e prodotto negli studi Thunderload dei fratelli Wahlquist (fondatori degli storici Heavy Load), questo album, verrà ristampato in CD dall SPV con due canzoni in più, tra cui la cover 'Sabbath Bloody Sabbath' dei Black Sabbath (Già apparsa su una compilation). Nel 1995 seguirà  'Rest And Recreation' vicino a sonorità detah metal, dove alla voce troviamo Ulf Lennemann e che segnerà la fine della band. (Gianni Della Cioppa)

 

POMARANCA 'Peklenska Pomaranca'  (RTB, 1981)

Prosegue la ricerca dei gruppi hard & heavy dell'Europa dell'est, quando queste terre non erano ancora un territorio di sangue e di morte. I Pomaranca hanno all'attivo (sembra) due soli dischi, e questo è il loro esordio, considerato dagli esperti il migliore. Un classico quintetto, con tastiere, un po' sulla scia degli UFO, infatti la band macina heavy metal, ma con una sintesi di influenze anni settanta. Ovviamente le composizioni sono derivative e la produzione lascia a desiderare, ma si tratta pur sempre di una testimonianza forte ed indelebile di come l'heavy metal, sin dai suoi esordi (Non dimentichiamoci che nel 1981, la NWOBHM stava vivendo il suo momento migliore solo in patria -nda) aveva contaminato gran parte del nostro continente. La copertina, in splendida versione apribile, che ritrae un fungo atomico, sotto il logo del gruppo porta la definizione "heavy metal shock", forse musicalmente esagerata, ma spesso in quel periodo contavano più le intenzioni che la forma. Nonostante i limiti di una voce mediocre, 'Mora', 'Mimo Hise Grem', 'Sminka', 'Orgia' sono canzoni valide, strutturalmente autonome e supportate da una buona tecnica strumentale. L'etichetta discografica è quella di stato, la Radio Televisione Belgrado, al stessa dei drugi nacin' trattati nel numero precedente. Come dire: si può suonare metal anche di regime! (Gianni Della Cioppa)

 

BLACK DEATH 'Black Death'  (Auburn, 1984)

In un momento di grande interesse intorno al rock meno convezionale (non parlo di commerciale, perché di fatto lo sta diventando) e dove quindi è possibile ascoltare gruppi pesantissimi, che trovano consensi di critica e pubblico è giusto rivalutare questo terribile quaretto americano, di Cleveland nell'Ohio. Composti esclusivamente da musicisti di colore, i Black Death si muovevano nei territori del dark metal, vicino a formazioni oscure come i miscnosciuti Demon Flight e la voce lancinante del chitarrista Siki Spacer, contrastava non poco con i riff carvernosi e terribili, supportati da un basso superamplificato, di canzoni che sin dal titolo dicevano tutto: 'Night Of The Living Death', 'The Hunger', 'Fear No Evil', 'The Scream Of The Iron Messiah', fino alla profetica, esplicita ed autocelebrativa 'Black Death'. Pacchiani, ma terrificanti, pagliacci, ma per nulla rassicuranti, i Balck Death sembravano una parodia di un film horror, ma la loro musica avanzava come un bulldozer, come lava di un vulcano, lenta, ma inesorabile, lenta, ma mortale. La prima tiratura del disco offriva un singolo in omaggio con due canzoni inedite, come inediti sono i pezzi 'Taken By Force' e 'Until We Rock', che compaiono nella raccolta 'Cleveland Metal' (Club Side, 1984). La morte nera non suona più, ma ha lo stesso ghigno terribile di un tempo. (Gianni Della Cioppa)

 

TRUST 'Marche Ou Crève' (Epic, 1981)

I Trust non sono semplicemente la più grande e famosa rock band francese, rappresentano il rock che attacca il potere, sono gli studenti di sinistra del '68 che sgretolano le istituzioni, sono le minoranze che sputano sulla polizia razzista. I Trust sono i Trust!! Musicalmente non hanno mai superato una buona mediocrità, con qualche bel disco, qualche ottima canzone e molti concerti trascinanti. Nel gruppo sono passati anche Jack Starr (poi nei Virgin Steele e solista) ed anche il batterista Nicko McBrain, da tempo motore ritmico degli Iron Maiden. I Trust hanno vissuto anni ruggenti nella prima metà deglia nni ottanta, sfruttando anche la NWOBHM e l'attenzione generale su tutto ciò che suonava elettrico e duro. Di fatto i parigini, guidati dal carismatico Bernard Bonvoisin, grande personaggio, ma limitato cantante, si sono espressi su ottimi livelli con il debutto di 'Trust', poi in 'Repression' ed infine con questo terzo 'MOC' che vanta la produzione di Tony Platt, già revisore dei Judas Priest. Il disco è fresco, frizzante, meno monocorde degli altri, con ottimi spunti di chitarra solista e senza la prevedibilità stile AC/DC (la loro maggior ispirazione) della restante discografia. Canzoni come 'Le Sauvage', 'La Junte', 'Misère' e soprattutto 'Les Brutes' (con un riff - credetemi - alla Diamand Head), meritano il vostro tempo e la rivalutazione di chi continua a cercare stimoli seminascosti nei sentieri del rock duro. Per alcuni dischi dei Trust è uscita la duplice versione francese/inglese, quindi non stupitevi, se trovate copertine diverse e canzoni uguali, che differiscono solo nei titoli. Il gruppo a fine anni ottanta si è sciolto, poi riformato più volte (una volta su spinta degli Anthrax, che hanno coverizzato la loro 'Antisocial') ed oggi gode di una terza giovinezza. Si perché in Francia, il popolo non ha mai smesso di lottare, mentre in Italia ci accontentiamo delle miseria e della merda del 'grande nulla'. (Gianni Della Cioppa)

 

SMACK 'Live Desire'  (Black Dragon, 1987)

Io mi chiedo solo una cosa: ma perché in Italia band così non ne abbiamo mai avute. Con un'attitudine reale, quel qualcosa in più che fa diventare una buona street band, in una sporca e ruvida street band. Dalle parti del Nord Europa anche oggi ci vengono catapultati gruppi reali, veri, che puzzano di sudore, di r'n'r, di chitarre e whiskey, di donne vogliose e notti selvagge. Cercate di capirmi, non sto parlando di band che hanno fatto i soldi, ma di attitudine vera, che non c'entra niente con il successo. Tu puoi vendere cento copie ed essere la band più fottutamente r'n'r, iconoclasta e nichilista del mondo. Forse qui in Italia siamo troppo mammoni, ci piace la vita comoda e forse le donne non sono poi così porche come si racconta, ma forse sognano tutte soldi, vestiti alla moda sicurezza e macchine grandi; fatto sta che se vogliamo vero r'nr' dobbiamo guardare in su. Hanoi Rocks, 69 Eyes, Hellacopters…e questi misconosciuti Smack, che mi avevano ucciso sin dall'esordio 'Smack On You' su Pink Dust del 1984, seguito da 'Rattlesanke Bite' e 'Salvation' fino a questo devastante doppio (LP + EP) dal vivo, che raccoglie il meglio della loro polverosa produzione più alcuni rifacimenti devastanti, come 'Paint It Black' dei Rolling Stones e la terremotante 'Search And Destroy' degli Stooges, probabilmente il riferimento più concreto per focalizzare gli Smack, che chiuderanno la carriera con 'Radical' del 1988. Il primo ed ultimo album su major, la CBS, prima che il simbolo del gruppo, l'angelo biondo, il cantante Claude, spegnesse la sua fame di vita. (Gianni Della Cioppa)

 

NO QUARTER 'Survivors'  (Reel Records, EP 1983)

I No Quarter fanno parte della seconda generazione della NWOBHM, quella che entra in scena dopo il successo di Samson, Iron Maiden, Def Leppard e Saxon. Si muovono su coordinate non prettamente metal, preferendo sonorità hard rock seppur vigorose e più veloci. Si fanno notare con un demo tape, distribuito dalla Neon Records, un vero e proprio album inciso però su nastro, che raccoglie consensi anche in Danimarca, Germania ed Australia, oltre che in patria. Li nota il famoso DJ Tommy Vance, che li seleziona per il secondo volume di 'Heavy Metal Heroes', a cui contribuiscono con la canzone 'Power And The Key'. Debuttano con questo Ep di tre pezzi, con la title track che li avvicina ai Saxon, anche per la voce di Snappi, molto simile a quella di Biff. 'Time And Space' è un pezzo acustico anonimo. Ma se ricorderemo i No Quarter è anche solo per il retro 'Racing For Home', un'iniezione di energia, con un riff classico, frastagliato da una tastiera imprevista e con un crescendo chitarristico degno di altri misconosciuti eroi della NWOBHM, i Trespass. Pochi mesi dopo questo EP il gruppo ci riprova con 'Birds Of Prey' (Bonzo Bear Records), un altro singolo degno di attenzione, per poi venir fagocitato dalle nebbie che inghiottirono l'intero fenomeno musicale di cui facevano parte. Snappi ed il chitarrista Dave Young riformano i No Quarter nel 1992, esce 'The Best Of No Quarter' nel 1994 per la Vinyl Tap, che raccoglie i brani del passato ed altri dal vivo, dopo di chè l'oblio! (Gianni Della Cioppa)

 

THUNDERSTICK 'Feel Like Rock'N'Roll?' (Thunderbolt, 1983)

Il batterista Thunderstick aveva fatto parte della primissima edizione degli Iron Maiden e si è consegnato alla storia del metal britannico degli anni ottanta per il suo cappuccio da boia nei grandiosi Samson Bruce Bruce-era, ovvero nello straordinario 'Head On'. Quando edifica questo progetto l'attesa è molta, ma viene vanificata da una scelta artistica inspiegabile, infatti nonostante il look da zombi, i Thunderstick suonano un hard rock elementare, influenzato da atmosfere sixties, che la voce esile e melodica di Jodee Valentine interpreta alla perfezione. Questo miniLP, raro pezzo da collezione, resta l'unica rara testimonianza del progetto Thunderstick e si apre con la danzereccia title track, prosegue con il refrain di 'Alecia', per dare il meglio in 'Runaround' con echi di Joan Jett/Pat Benatar. 'Buried Alive' chiude la contesa senza mantenere fede alle atmosfere cupe che il titolo promette. Innocuo r'n'r, ma almeno abbiamo accontentato chi dice che scriviamo solo di dischi imperdibili. (Gianni Della Cioppa)

 

THE AWFUL TRUTH 'The Awful Truth' (Metal Blade, 1990)

Dopo il successo di settore raggiunto dai King's X, il produttore Sam Taylor aveva cercato di portare a galla gli emuli dei suoi eroi texani. Il primo tentativo è stato con i sottostimati Galactic Cowboys e l'ultimo con i grandi Atomic Opera. Tra questi due gruppi, è passata come una cometa una terza band che pochi conoscono, si tratta del trio degli Awful Truth, una sorta di versione più melodica e rallentata del gruppo madre, come testimonia lo splendido brano d'apertura 'It Takes So long' che sorprende con la sua andatura quasi tribale su cui si innesta una voce sussurrata che si amplifica nel ritornello grazie a cori di chiaro stampo sixties, nel classico stile dei gruppi sotto l'ala protettrice di Sam Taylor. Monty Colvin, Alan Doss e David Von Ohlerking, rispettivamente basso, batteria e chitarra e cantanti, pur non raggiungendo le vette dei King'S X, ci lasciano otto canzoni che documentano uno stile fresco e piacevole, sintesi tra retaggi hard rock classici e strutture più elaborate come fotografano 'Circle Of Pain', 'No Good Reason', 'Drowing Man' e 'Ghost Of Heaven' o i fumi hard psichedelici di 'I Should Have Know All Along' e 'Higher'. A chiudere una bellissima 'Mary' che aumenta il rammarico per la scomparsa di una band che vi invito caldamente a riscoprire! (Gianni Della Cioppa)

 

DANZIG II  'Lucifuge'  (Def American, 1990)

Mi ha colpito in maniera positiva la seconda prova degli americani  Danzig. Il nome della band è preso da colui che può essere definito il leader indiscusso cioè Glenn Danzig, anima e voce della band. Ho pensato molto se era giusto ripescare un titolo cosi giovane, ma riascoltando queste canzoni ho avuto la sensazione di essere nel giusto. Sono legato a Lucifuge perché è a mio parere un album che avvicina la carica hard dei Cult al misticismo lisergico dei Doors. Non è un ascolto facile, ma non perché sia suonato con pesantezza o perché sia atipico, ma è perché nell’anima è un estratto di blues,hard rock, spiritualità e forse questo è troppo per l’ascoltatore medio. Affrontate senza pregiudizi, canzoni come ‘Long Way Back from Hell’, ‘Snakes Of Christ’ o la stupenda ‘I’m The One’, anche i più avanti d’età scopriranno un artista certamente scomodo e spesso goliardico ed eccentrico ma che dentro ha veramente qualcosa di speciale. La cosa più sincera che posso dirvi è quella di ascoltarlo da soli, in un momento di intima solitudine è uno di quei dischi che vi può dare la giusta carica per affrontare le difficoltà. Non ci sono momenti di cedimento o di plastica asfitta in queste canzoni, c’è l’amore per tutto ciò che ha portato alla nascità di un movimento rock che aldilà delle mode e dei detrattori è un movimento che vive, si nutre, cambia, si trasforma, a volte si piega, si trucca, si pavoneggia, ma in verità non muore mai. Maligno ma conquistatore il Danzig !!!! (Massimo Bettinazzi)

 

LIAISON  'Urgency'  (Frontline, 1991)

A.O.R., spesso il termine viene usato impropriamente e tutto ciò non rende giustizia a coloro che amano queste sonorità. I canadesi Liaison, sono in realtà due fratelli, Tim & Lary Melby, i quali hanno unito i loro sentimenti di fede cristiana e di rispetto verso la terra, creando delle atmosfere uniche con Urgency. Non aspettatevi suoni pomposi o cori alla Bon Jovi, qui la qualità è rappresentata dalla timidezza delle composizioni che emergono in modo soffice e delicato in maniera che l’ascoltatore venga rapito dalle melodie vocali semplicemente celestiali. Sono passati dieci anni dall’uscita di U. ma l’ascolto della title track o di ‘ Ocean View’ rimane un classico, e non è per retorica ma dischi cosi belli negli anni 90, almeno in questo genere, ne sono usciti pochi. Credetemi la classe dei Liaison non è studiata a tavolino, le loro canzoni vengono dal cuore e solo chi ha avuto la fortuna di sentirle sa cosa voglio dire.Tutta la loro forza melodica è ben bilanciata con continui cambi voce che impreziosiscono le strutture delle song.Citare un brano invece di un altro mi sembra riduttivo,sappiate comunque che i dieci pezzi inclusi nell’album potrebbero essere dei potenziali hit radiofonici, ma evidentemente il treno giusto non è passato dalle parti dei Liaison. Cosa vi posso dire, è un disco stupendo, ovvio non è per chi ama il metal o sonorità rock sradaiole, ma è un momento di raffinato A.O.R. che sicuramente vi farà conoscere un classico del genere. (Massimo Bettinazzi)

 

MATTADOR  'Save Us From Ourselves'   (Osama, 1994)

Difficile, veramente difficile , accettare il fatto che i Mattador siano rimasti degli onesti sconosciuti. Band dalle chiare origini latino americane, artefice di un suono pomposo e metal futuristico nello stesso tempo, riesce a far coesistere i suoni pomposi dei grandi Prophet, con il metal cromato dei Queensryche di Operation:Mindcrime. Non voglio ingannarvi in maniera subdola, il disco è assai arduo da trovare, ma è un lavoro incredibile che merita di essere messo in risalto. So che parlare di un incrocio Queensryche/Prophet può sembrare ardito, ma è proprio con l’intro che i Mattador omaggiano il combo di Seattle. L’esplosione di energia melodica, levigata ma dall’impatto duramente metal, mi ha letteralmente sconvolto. Impossibile dimenticare la stucchevole apertura, è un insieme incredibile di suoni dirompenti e maestosi allo stesso tempo, e come dicevo prima nei dieci minuti iniziali, abbiamo la conferma che il seme dei Prophet non è andato smarrito nell’aria. La struggente ‘ If You’re Gone’ , apre con venature funky, dimostrando la tecnica sublime dei componenti . Non si può tra l’altro non citare i Kansas o gli Styx, tra le preferenze dei Mattador, e poi cosa non comune la loro incredibile capacità nel creare cori di facile presa su un tessuto musicale mai facile. Può sembrare strano ma qui potete ascoltare delle song come ‘Tired’, che se l’avesse pubblicata Bon Jovi, ne avrebbe parlato il mondo intero!! Ma che cazzo, lavori cosi sono passati in soffitta nella metà degli anni 90 e perché??? Ma come, non lo sapete, perchè era l’epoca del grundge e allora dai a cercare la copia dei grandi Pearl Jam o dei Soundgarden e via dicendo, ma io vi dico che molti lavori erano ottimi e tra questi ci sono i Mattador. Vi piacerà, ne sono sicuro, perchè in fondo è un album che ha il lato melodico, sfida l’aor , ama il metal tecnologico, si veste di ciò che poi è divenuto moda cioè il prog metal, ma soprattutto ha le canzoni. E come dice un mio amico carissimo, quando hai le canzoni e un ottimo cantante sei già a metà dell’opera. Chiaro che per me è magia pura la musica dei Mattador, per cui ho un solo consiglio, cercatelo nei negozi d’usato o nelle fiere, scoprite l’ebbrezza e l’emozione di aver trovato un disco che può farvi sognare. Oggi è veramente importante scoprire il passato, ci può riservare sorprese gradite e far scoprire talenti ingiustamente ignorati. Date fiducia al nostro fiuto musicale, non abbiate timori e amate tutto ciò che è musica aldilà delle mode del momento.  (Massimo Bettinazzi)

                                        

ROCK GODDESS  'Rock Goddess'   (A&M, 1983)

Metal band tutta al femminile, con base operativa a Londra. Le sorelle Turner sono l’anima di questo trio, completato con la bassista Tracey Lamb, e alla cui base di inizio c’è l’amore per le famose Runaways. Per essere pratici, bisogna amettere che molto era giocato sulla possibile risposta di pubblico ad una nuova band femminile, ricordiamoci che già c’erano le ottime Girlschool, e a dire il vero le canzoni di questo debutto non sono niente male. A un primo approccio si potrebbe parlare di metal melodico e ritengo infatti che il sound delle R.G. possa esserlo. Non aspettatevi retaggi di hard o copie di Judas o Iron, le canzoni sfilano veloci e accattivanti, grazie anche alla voce decisa di Jody T. e alla sezione ritmica semplice ma precisa. Sono più canzoni da live con cori da adolescenti e mai trame impegnative, per intenderci più vicine al rock’n’roll da liceo che al metal da defender. Le song aprono quasi tutte con i mitici riff che hanno infuocato i primi anni 80, è comunque emozionante riascoltare a distanza di 20 anni pezzi che ti hanno accompagnato una vita, non si possono dimenticare ‘Heartache’ , ‘My Angel’ o l’inno ‘Heavy Metal Rock’n’Roll’. Oggi vi farà sorridere ma negli anni 80, una nuova notizia sulle Rock Goddess era seguita con interesse dai metallari, poi il tempo un po alla volta si è ripreso tutta la carica che le tre ragazze avevano in questo primo disco. Lasciando da parte le varie scelte personali è comunque da considerare il notevole interesse iniziale che aveva circondato la band. Non è un disco fondamentale, ma se ci pensate bene non è facile oggi per le band femminili pensate quindi ai primi anni 80, dove tutto il metal era borchie e pelle nera e comunque riservato ai maschiacci. (Massimo Bettinazzi)

                                                                                  

ROUGH CUTT  'Rough Cutt'  (Warner Bros, 1985)

Una band eccezionale che però non ha avuto la fortuna dalla sua. Ai californiani Rough Cutt non è bastato l’aiuto di Dio, e non è un gioco di parole. Ronnie James Dio, li aveva notati e aiutati ad avere un contratto major, tanto che il management è proprio quello della moglie di Dio. Il fiore all’occhiello di questa band era l’ottimo cantante Paul Shortino, dalla voce calda e ruvida, che riusciva a trasmettere brividi anche agli ascoltatori che storcevano il naso verso il rock americano. In effetti i Rough Cutt erano più propensi a canzoni dirette e dal cuore hard, piuttosto che a facili cori glam o ruffiani. Era forse l’immagine che aveva tradito il pubblico ma vi garantisco i Rough Cutt facevano hard rock !! Provate ad ascoltare l’iniziale ‘Take Her’, è quasi più vicina ai Judas Priest di Turbo ( in effetti il produttore è Tom Allom ) che al genere americano in voga nella metà degli anni 80. Anche la cover di ‘Piece Of My Heart ‘ è una perla che da un gruppo debuttante nessuno si aspettava. Quando si cerca la melodia personale e non artefatta allora si passa al metal de luxe di ‘Never Gonna Die’ & ‘Dreamin’ Again’, e qui si parla di classici del genere. La performance di Paul Shortino e soci è assolutamente devastante e il gruppo si fa cosi apprezzare dagli ascoltatori più attenti. Potente anche in ‘Cutt Your Heart Out’, la band dimostra di non volersi trincerare dietro le solite pose e tutto questo è confermato da ‘Black Widow’. Il refrain e il coro di ‘You Keep Breaking My Heart’ è puro metal in stile Malice. Si signori i Rough Cutt avevano personalità, quella dote che molti gruppi dell’epoca non avevano, ma nonostante tutto non è stata data loro la possibilità di durare a lungo. Converrete con il sottoscritto che a distanza di anni questo lavoro deve essere rivalutato e che all’ascolto risulta essere ancora fresco e pieno di idee. Purtroppo già con il lavoro successivo i Rough Cutt virarono verso sonorità più leggere e vista la risposta negativa del mercato la band calò mestamente la bandiera. Il colpo finale fu l’abbandono di Shortino, il quale si accasò ai Quiet Riot. Personalmente ho un documento live della band datato 1996, dove si parla di un III capitolo della riformata band, ma ad oggi mi sembra che nulla sia uscito. Peccato perché i Rough Cutt avevano qualcosa di speciale. (Massimo Bettinazzi)

                                   

SHIVA  'Fire Dance'  (Heavy Metal Records, 1982)

Seppur con le dovute cautele, gli inglese Shiva, autori di un'unica esperienza su album cioè questa, possono essere considerati come uno dei gruppi di hard rock progressivo della N.W.O.B.H.M.. All’epoca si era persino parlato di riferimenti ai canadesi Rush ( forse perché un trio anche loro ), e ascoltando bene Fire Dance, non è poi cosi arduo questo paragone. Non pensate però che gli Shiva siano la copia dei maestri, non è questo il succo del discorso, il fatto è che loro in un momento in cui il puro Heavy Metal classico stava rinascendo con nomi come Iron Maiden, Saxon, Tygers Of Pan Tang e via dicendo, se ne sono usciti con un album totalmente fuori dal trend, pur se riconosciuti protagonisti del movimento musicale sopra citato. Il lavoro è sicuramente interessante e se avesse goduto di una produzione appena più accetabile, forse un interesse maggiore l’avrebbe ottenuto. Vi confido che la reperibilità del disco è difficile per cui si confida in una ristampa,( visto che ormai hanno ristampato tutto ), certo è che Fire Dance è un documento storico ed è quindi giusto dargliene atto. Sono convinto che piacerà agli amanti delle sonorità di Marillion, Genesis, Rush e perché no anche a chi è impazzito per il prog metal degli ultimi anni. Le canzoni ci sono e se proprio vogliamo fare l’appunto è la voce del cantante John Hall che risulta un po afona, tra parentesi lui suona anche chitarra e tastiere, ma la melodia dei pezzi riesce a creare una magia che se paragonata all’epoca d’uscita risultava eccelente. Gli Shiva ebbero breve durata e questo risulta strano, perché qualche anno dopo fu proprio il momento di gruppi come Marillion a portare nuova linfa vitale al panorama Inglese. Non sarà stato un capolavoro ma in fatto di proposta originale gli Shiva erano stati trà i migliori e di questo bisogna dargli merito. (Massimo Bettinazzi)

 

SKULL  'No Bones About It'  (Music For Nations, 1991)

Passato inosservato o comunque ignorato dai più, l’album degli Skull di Bob Kulick è uno stupendo spaccato di hard rock americano, una sorta di Kiss duri e pesanti che stranamente non ha trovato consensi. Insieme a Kulick, troviamo Bobby Rock alla batteria, Dennis St.James voce e Kjell Benner al basso. Dunque non musicisti di primo pelo ma gente che aveva già detto la sua in campo rock. Il cocktail micidiale che ne esce è pura dinamite e forse è proprio per questo che il progetto non ha avuto fortuna, in più bisogna considerare che il 1991 non è stato certo l’anno d’oro del rock americano. Dicevo dinamite ed in effeti la potente voce di St. James, riesce a dare corpo come fosse un Joe Lee Turner potente ed arrabiato, la ritmica gioca la sua parte alla grande, il gusto tecnico di Kulick si conosce ed ecco che dal cilindro escono song come ‘Eyes Of A Stranger’ o ‘Breaking The Chains’, cha hanno all’interno tutti i trucchi per poter piacere al grande pubblico americano. Sarà ma effetivamente qui c’è quello che solo quattro o cinque anni prima aveva fatto la fortuna di molte bands minori, ma con una tecnica veramente superiore. Ascoltate la potenzialità di ‘I Like My Music Loud’ potrebbe essere una song dei primi Twisted Sister ( grandi !! ), o la fantastica ‘Loser’s Game’. L’unico neo che posso imputare agli Skull è che forse hanno rubato un po troppo alle band che li hanno preceduti nel genere e in effetti anche i Van Halen sono stati ripresi in ‘Head Over Heels’, comunque song bellissima. Non c’è un attimo di tregua o di sbandamento in questo lavoro degli Skull e la torrenziale ‘Guitar Commandos’ ci prepara alla ballata ‘This Side Of Paradise’, veramente degna di nota, con un St.James veramente sugli scudi. Chiude l’album la cavalcata di ‘King Of The Night’ ed è ancora lava incandescente che eruttano gli Skull. Ripeto non è un capolavoro ma sicuramente uno stupendo album che ha visto la luce nel momento più sbagliato per il genere. (Massimo Bettinazzi)

 

JACK STARR  'Out Of The Darkness'  (Music For Nations, 1984)

Il chitarrista americano è noto per i suoi trascorsi nei Virgin Steele di DeFeis, ma pochi hanno conosciuto o semplicemente seguito la sua carriera solista, iniziata proprio con questo disco. Alla voce troviamo Rhett Forrester dei Riot e alla sezione basso/batteria i The Rods al completo. Questo è un disco di puro Heavy Metal, con continui duelli chitarra/voce, e quindi non aspettatevi niente di inusuale o innovativo. Nonostante questo preambolo dovuto, mi preme sottolineare , la buona coesione frà l’istrionità di Starr e la stupenda e aggressiva voce di Rhett. Le canzoni che compongono l’album, sono la testimonianza, se mai ce ne fosse bisogno, dell’amore di Starr verso i Judas Priest e comunque verso il metal brittanico in generale. Non si può certo rimanere inerti davanti al fast metal di ‘ Concrete Warrior ‘ anche se qui si sentono più i Riot che altro, ottime anche le fughe di Starr in ‘ False Messiah’ o in ‘ Sorcher’, il tutto è comunque ben potenziato dal potente lavoro di basso & batteria. Siamo sempre sul binario metal infuocato con le successive killer song ‘ Chains Of Love’ e ‘ Eyes Of Fire ‘, bellissima la strumentale ‘Odile’, momento d’intimità del rocker Jack. Chiude, quasi in chiave rock’n’roll , la divertente ‘ Let’s Get Crazy Again’, buona per prestazioni live, ma che poco incide sul complesso del lavoro. Non siate sempre alla ricerca dei soliti nomi, Jack è un personaggio di cui non si sa molto, spesso nascosto ai clamori della stampa specializzata, ma è stato comunque un defender per eccelenza e le sue esperienze musicali meritano attenzione. Ripeto, non sarà un capolavoro ma chi oggi salta per il power metal o affini, avrà modo di conoscere un artista che ha dato vita, con DeFeis, ai grandi Virgin Steele. (Massimo Bettinazzi)

 

THE RODS  'The Rods'  (Arista, 1981)

Agli inizi degli anni 80 i The Rods di New York suscitarono un buon interesse, il loro hard’n’heavy era energico e potente, con pezzi dall’impatto immediato e deciso. La band era composta tra l’altro dall’ex chittarista degli Elf, e cugino di Ronnie James Dio, David Feinstein. Alla sezione ritmica i due martelli Carl Canedy al basso e Gary Bordonaro alla batteria. Come detto prima la musica è puro heavy metal e soprattutto in Inghilterra i The Rods riuscirono a conquistare l’interesse dei defenders, tanto che riuscirono ad andare in tour con i lanciatissimi Iron Maiden. The Rods in verità è il secondo album,  il primo è Rock Hard ( Primal 1980 ), ma la differenza è solo in tre brani qui non presenti. Con ‘Power Lover’ inizia l’assalto dei tre, con delle potenti parte ritmiche e con le consuete sei corde pesanti, i The Rods liberano la loro furia istintiva e quello che fuoriesce è un concentrato di puro hard’n’heavy. Feinstein è il trascinatore diretto della scorribanda e non ci sono momenti deboli dove si possa pensare all’apertura melodica. In alcuni momenti si ascoltano degli sprazzi di amore verso sonorità hard rock anni 70, ma questo è dovuto più a una conseguenza dei loro ascolti giovanili che a una scelta vera e propria. Sono tutti pezzi storici di un passato che non tornerà più, almeno per la spontaneità di quei protagonisti, e sono ancora convinto che il tutto era mosso da una passione incontrollabile. Si, lo sappiamo tutti che all’epoca le uscite erano minori come quantità e che spesso si ergevano a nuove realtà band appena sufficienti, ma per quanto riguarda i The Rods, vi posso assicurare che questo lavoro e il successivo ‘Wild Dogs’ sono dei classici del genere. (Massimo Bettinazzi)

 

TRIUMPH ‘Thunder Seven’ (MCA, 1984)

Negli anni ‘80 il Canada ha presentato due formazioni capaci di esprimere il feeling di quella terra: sto parlando (ovviamente) dei sempre verdi Rush e di questi Triumph, che sono stati meno tecnici dei connazionali (e non progressive), ma più portati verso l'hard rock melodico. La stessa formazione dei Triumph era simile a quella dei più famosi colleghi, essendo anch'essa triangolare. I componenti erano Gil Moore, batterista/cantante (come Neil Peart), Mike Levine, bassista/tastierista (come Geddy Lee) e Rik Emmet, dotato chitarrista e ottimo vocalist la cui voce spiccava per melodiosità tanto da risultare inconfondibile nel panorama rock. Dopo ottimi album come ‘Progressions Of Power’ e ‘Allied Forces’ e prima del live ‘Stages’, i Triumph firmarono questo ‘Thunder Seven’ composto da ottime canzoni. Apre ‘Spellbound’ all'insegna del rock gioioso, mentre ‘Rock Out, Roll On’ presenta un refrain da cantare a squarciagola se si possiede una voce abbastanza melodica. Dopo il rock 'n’ roll ‘Cool Down’, ‘Follow Your Heart’ getta un messaggio ai cuori ardenti. In apertura di facciata B un frammento acustico introduce la bellissima ‘Time Goes By’, in cui Emmet si esprime davvero a1 massimo. Un delicato intermezzo vocale precede poi l'intensa ‘Killing Time’. Segue poi ‘Stranger In A Strange Land’, tipico hard rock nord americano. Chiude la bluesy ‘Little Boy Blues’. La carriera dei Triumph si arricchì poi di altri validi lavori, mentre, dopo lo scioglimento del gruppo, Rik Emmet ha continuato una carriera solistica riuscendo, in alcuni episodi, a toccare vertici rimembranti quelli di ‘Thunder Seven’. (Gianfranco Guarini)

 

CATHEDRAL  ‘The Ethereal Mirror’ (Earache, 1993)

Se è vero che i Cathedral di oggi si sono un po’ rimbecilliti nel tentativo di diventare i Black Sabbath del 2000, è però vero che, in tempi non lontani, l’allegra combriccola di Lee Dorian ha saputo riportare alla ribalta il buon vecchio, mitico hard rock settantiano, in maniera forse non originalissima, ma tremendamente efficace e convincente. Dopo l’apocalittico ultra-doom dell’esordio ‘Forest Of Equilibrium’, la band dà subito chiari segnali di evoluzione con un mini-LP (‘Statik Majik’) che è un interessantissimo concentrato di energia psichedelica cui segue, a breve distanza, il secondo full-lenght LP, ‘The Ethereal Mirror’, che, a mio parere, è un’autentica gemma. Si inizia con ‘Violet Vortex’, un arpeggio liquefatto che sfocia in un riff di pietra assolutamente memorabile e s’intuisce fin da subito che non siamo di fronte ad un patetico revival venato da una nostalgia per il tempo che fu, ma ad un autentico calderone ribollente di un rock granitico, tombale, monolitico, ma vivo e pieno di sfumature, suonato con la giusta attitudine e, soprattutto, ispirato. ‘Ride’ è un puro e malato stoner, mentre ‘Enter The Worms’ (magnifica!) è il doom come dovrebbe essere sempre (o quasi): sepolcrale e anfetaminico. Ai riffs sabbathiani delle chitarre di Garry Jennings e Adam Lehan, fa da contrappunto la graffiante voce di Lee Dorian che, dimenticati gli albori sonori dei suoi ex colleghi Napalm Death, ci conduce per mano nel suo personale mondo di fumose ed allucinanti fantasie psichedelico-infernali, ben evidenziate da ‘Phantasmagonia’, praticamente una macabra gita di piacere sul traghetto di Caronte. Mentre ‘Midnight Mountain’ indugia sul lato più danzereccio della nostra musica preferita, ‘Jaded Entity’ è una perla di terrore cieco, così come ‘Fountain Of Innocence’ viaggia sul confine tra il sogno e l’incubo. Molto bella è anche ‘Ashes You Leave’, ancora doom-rock di stretta discendenza sabbathiana, mentre con l’arpeggio di ‘Imprisoned In Flesh’ si chiude in bellezza un album stupendo la cui ispirazione non verrà più raggiunta dai Cathedral, che si ripeteranno a grandi livelli solo col successivo ‘The Carnival Bizarre’, meno doom e più rock, per poi diventare la parodia di loro stessi negli ultimi mediocri lavori. ‘The Ethereal Mirror’ è comunque già storia, (ri)scopritelo! (Fabio Montanari)

 

 

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Rewiew by Gianni Della Cioppa - Fabio Montanari - Max Bettinazzi - Gianfranco Guarini - by Andromeda

                                                                           

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